Juan Dixon: da un'infanzia tremenda alla casa di Maryland

La guardia di Maryland ha dovuto superare la morte dei genitori per Aids e tantissime difficoltà prima di diventare un'icona dei Terrapins e poi un giocatore NBA
27.11.2014 15:00 di  Simone Mazzola  Twitter:    vedi letture
Juan Dixon: da un'infanzia tremenda alla casa di Maryland
© foto di Maryland twitter

Ogni giocatore NBA ha una storia da raccontare e nella maggior parte di esse c’è un’infanzia difficile, situazioni famigliari complicate o la tendenza ad aver frequentato oltre ai campetti anche persone di dubbia affidabilità come vi abbiamo raccontato nel caso di Marcus Smart.
Dopodichè ci sono quelle storie che riguardano delle persone che con la forza della caparbietà e del non arrendersi alle continue avversità della vita, riescono a ritagliarsi un posto nel mondo e nella fattispecie nell’NBA. Non necessariamente lasciano un segno indelebile, magari vivono il loro momento di notorietà e poi ritornano nell’oblio della mediocrità. E’ il caso di Juan Dixon, giocatore normodotato fisicamente, più che discreto nella tecnica ma dal cuore immenso derivato da una vita che gli ha posto davanti ogni situazione difficile.

Juan è il secondo di quattro figli (Phil Jr, Nicole e Jermaine) e il padre (Phil Sr.) durante la sua  gioventù fa la spola tra la casa e la prigione sino a quando non entra nel vortice della droga, venendone risucchiato a tal punto da consumare le proprie dosi all’interno delle mura domestiche e davanti ai figli che dovevano guardarsi dal suscitare le sue ire dopo l’assunzione.
La spirale si conclude con la contrazione dell’AIDS e la conseguente morte nel giro di poco tempo, lasciando sulle spalle dei figli la già precaria situazione economica. In molte di queste situazioni è la mamma successivamente a farsi carico di mandare avanti la famiglia, ma anche Juanita entra nel mondo della droga, contrae anch’essa l’AIDS e un giorno muore proprio tra le braccia di Juan che aveva provato a prestarle soccorso. In poco tempo la famiglia è ridotta solamente ai quattro figli che devono cercare di sbarcare il lunario nel ghetto di Baltimora, dove non sempre andare in giro per strada è garanzia di tornare a casa. A 17 anni Juan si fa tatuare sui bicipiti i nomi dei genitori e sul pettorale il viso di Juanita, ma deve ringraziare soprattutto il fratello maggiore Phil Jr. per averlo tenuto lontano dai guai e avergli fatto conoscere la pallacanestro. Le interminabili ore passate a lavorare sul suo jump shot gli hanno fruttato uno dei sostentamenti economici principali, ovvero la riscossione di denaro sulle sifde che vinceva ai campetti.

Dopo aver messo il suo nome sulla cartina dell’high school arriva la svolta, ovvero la chiamata e la borsa di studio per Maryland University dove Juan trova la figura paterna che gli è sempre mancata: coach Gary Williams. L’anno da freshman è completamente passato in panchina a causa di un fisico troppo gracile per poter reggere l’urto di un college di division one, ma già in questi momenti Juan e Gary hanno modo di gettare le basi del loro rapporto, trattando ogni tipo di tema cestistico. Il coach lo prende sotto la propria ala protettrice, lo mantiene focalizzato sul basket e gli evita diversi problemi, guadagnadosi il rispetto da una persona a cui la vita aveva tolto anche la possibilità di fidarsi di qualcuno.
Juan trova la sua vera famiglia allargata con lui e il compagno Byron Mouton con il quale passa tantissimo tempo e al quale rimane molto vicino nel momento in cui, durante l’intervallo di una partita, comunicano la morte del fratello in una sparatoria. La negativa esperienza di Dixon ha aiutato Mouton a superare l’enorme choc e ha creato così uno spogliatoio unito e affiatato che ha portato i Terps a due Final Four consecutive.
La prima si è conclusa con un’incredibile sconfitta patita da Duke in semifinale dopo essere stati avanti anche di 22 punti, ma l’anno successivo con la straripante voglia di rivalsa arriva il titolo NCAA grazie alla vittoria nella finale contro Indiana. Era il momento del “now or never” per quel gruppo che avrebbe visto partire Wilcox per la NBA, con Baxter (poi visto in italia a Siena) e Dixon alla loro ultima partita da senior.
Juan sentiva talmente tanto la pressione da indurre coach Williams a farlo partire dalla panchina per permettergli di essere meno contratto e d'incidere da subito. Lui non si fa scappare una delle prime occasioni per sorridere e gioire, segnando 18 punti e la tripla decisiva che ha spianato la strada verso il titolo. Al Georgia Dome di Atlanta non solo taglia la retina della vittoria, ma viene nominato anche MVP del torneo diventando il primo giocatore della storia NCAA a collezionare 2000 punti, 300 palle rubate e 200 triple. Il successivo draft lo vede chiamato alla 14 dai Wizards di Jordan.
La sua carriera NBA è avara di soddisfazioni attraverso squadre di bassa classifica come gli stessi Wizards, Pistons e Raptors con la parentesi dei Blazers.
Ha giocato anche al di qua dell’oceano all’Aris, all’Unicaja (dove è stato sospeso per doping) e al Banvit, ma poi ha chiuso la sua carriera molto presto a causa di irrisolvibili problemi alle ginocchia. Nel 2013 ha avuto la possibilità di tornare in quella che è stata la sua casa, molto più delle quattro mura in cui viveva con la famiglia: a Maryland.
Coach Mark Turgeon lo ha fatto diventare un assistente allenatore volendo fortemente il suo ritorno e l’emozione di Juan alla prima partita è stata incontenibile. “E’ stato come riabbracciare la famiglia che non vedi da tempo” ha detto.
E se facciamo eccezione per i tre fratelli, questa è probabilmente la vera famiglia di cui ha fatto parte e che non l’ha mai deluso.

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